Recensione a cura di Red#1368
A tre anni dall’uscita del discusso (nel bene e nel male) Heritage, album che ha rappresentato un vero spartiacque nella lunga e piena di successi carriera della band, ecco ritornare sulla scena gli Opeth. L’undicesimo album della band svedese, dal titolo Pale Communion, rimarca ancora più nettamente l’evoluzione compositiva di Mikael Akerfeldt e compagni, che proseguono la strada intrapresa col già citato Heritage, partorendo un nuovo album dall’altissimo contenuto progressive e dal poverissimo contenuto metal, etichetta, quest’ultima, che ormai sembrerebbe definitivamente appartenere al passato.
Come già accaduto con diversi altri lavori, la band di Stoccolma ha potuto contare sul prezioso contributo di Steven Wilson, leader dei Porcupine Tree, che si è occupato del mixaggio dell’album. Venendo all’album, questo è una composizione di circa un’ora suddivisa in 8 tracce: il pezzo di apertura, Eternal Rains Will Come, parte benissimo con un lungo intro carico, in cui spicca Svalberg alle tastiere; troppo lineare e scontata la linea vocale (nonostante la buona armonizzazione con i controcanti), inserita in un contesto strumentale che invece funziona alla grande e che sfocia in un bel finale dal sapore orientale, riprendendo un sound già ascoltato in Heritage. Si prosegue con il singolo che aveva anticipato l’album, Cusp of Eternity, pezzo dalle sonorità meno progressive e più cupe, caratterizzato da cori insoliti e dove le chitarre fanno da padrone con riff secchi, tanto semplici quanto efficaci: di grande spessore anche l’assolo. Con Moon Above, Sun Below si arriva alla composizione più lunga dell’intero album, con 11 minuti in cui si possono distinguere due fasi: ritmi contenuti e arpeggi ricchi di sound nostalgico, alternati a momenti più progressive ben scanditi dalla batteria, nella prima metà della canzone, dove si incontrano dunque alcune delle caratteristiche distintive dei “vecchi” Opeth; illusione subito cancellata dalla restante mezza traccia, che torna a sposarsi con la nuova idea musicale della band e che scorre via, anche un po’ noiosamente, senza lasciare veramente il segno. Elysian Woes propone una godibile atmosfera soft, che precede la particolarissima Goblin, unico pezzo strumentale dell’album, che rompe tutti gli schemi finora affrontati, infatti nonostante un intro sulla falsariga di Cusp of Eternity, la traccia si evolve continuamente, non lasciando mai punti di riferimento e intrecciando tante idee senza mai scadere nella confusione.
Il passo successivo è River, pezzo abbastanza controverso in quanto, nei suoi 7 minuti e mezzo di durata, spazia dentro mondi musicali inaspettati. Per circa mezza canzone ci si trova di fronte ad una melodia che associare al nome “Opeth” qualche anno fa, avrebbe fatto sorridere i più: roba più adatta ad essere la colonna sonora di qualche commedia a lieto fine, che ad essere inserita in un album di quelli che un tempo erano i maestri del progressive-death metal. Superato (molto traumaticamente) l’eccessiva dolcezza dei primi 3 minuti, la traccia fortunatamente imbocca una strada più progressiva e tortuosa, subendo diverse accelerate che culminano in un finale in crescendo. Il pezzo rappresenta contemporaneamente la croce e la delizia dell’album. La penultima traccia è Voice Of Treason, una lunga traccia che vive di alti e bassi e che pecca eccessivamente di prolissità a causa di linee melodiche poco efficaci che faticano ad emergere. L’album si chiude con Faith in Others, pezzo molto ispirato, con richiami ai King Crimson del lontano ’69 (l’intro della canzone profuma un po’ di Epitaph, con le dovute proporzioni) e qualche salto (nostalgico?) nel proprio passato, attraverso lunghe parti arpeggiate che generano atmosfere intime che in passato hanno fatto la fortuna di pezzi quali A Fair Judgement o di album come Damnation. Complessivamente l’undicesimo album degli Opeth è un lavoro di tutto rispetto e rappresenta un consistente passo in avanti rispetto al precedente lavoro, sicuramente più convulso nelle intenzioni e nelle idee; gli Svedesi sono sicuramente più consapevoli di ciò che fanno e Pale Communion ne è la prova, risultando un album omogeneo e godibile.
Tuttavia è un album che renderà la maggior parte dei fan soddisfatti a metà, perché è un po’ difficile digerire un secondo album di questo stampo, dopo essersi innamorati della band grazie a capolavori come Blackwater Park, Deliverance e Ghost Reveries: di fatto, nonostante le discrete idee contenute, l’album manca (così come il suo predecessore) di quella forte impronta che la band riusciva ad imprimere nei propri lavori. Non si tratta semplicemente dell’abbandono della vena death-metal della band, che in passato aveva sperimentato sonorità soft e voci totalmente in clear nel già citato Damnation con risultati eccellenti. L’impressione è piuttosto quella che la musica che propongono da ormai 3 anni sia un’innaturale forzatura compositiva, un tentativo azzardato di entrare nel mondo progressive rock che si traduce in album freddi e carenti di personalità, per quanto complessivamente piacevoli da ascoltare. E’ sicuramente coraggiosa la scelta di Akerfeldt di lasciarsi alle spalle un passato glorioso e buttarsi in una nuova avventura musicale, andando a richiamare un genere ormai poco frequentato come il progressive rock anni ’70, consci del fatto che questa scelta avrebbe fatto storcere parecchi nasi. La vena progressive è sempre esistita negli Opeth, ma era un progressive diverso, più cattivo e meno fighetto.
C’è dunque da chiedersi se valga la pena abbandonare il proprio habitat naturale, uno stile e un genere in cui dai il 100% e ti esprimi al massimo, per avvicinarsi ad un genere in cui sei uno dei tanti, in cui non emergi, in cui i tuoi album non sono al livello dei capisaldi del genere e lo fai puntando su un target di ascoltatori acquisito proponendo musica di tutt’ altro tipo, oltre che di tutt’altro livello qualitativo.
Voto 65/100
Top Tracks: Eternal rains will come, Goblin
Skip Track: Voice Of Treason